Ritornano come in un assurdo tormentone le accuse al lavoro autonomo.
“ARTIGIANI EVASORI?”
Ma i dati delle tabelle non sono corretti
Ecco i sette……vizi capitali di quegli inattendibili importi medi dei redditi
A metà del mese scorso, con inquietante puntualità e a ridosso dell’animato dibattito sui provvedimenti fiscali della Finanziaria 2007, le prime pagine di molti quotidiani hanno nuovamente “sbattuto in prima pagina” l’artigianato e le sue imprese. L’occasione è stata la pubblicazione delle tabelle delle dichiarazioni dei redditi 2005 e il tormentone che si è scatenato è stato nuovamente quello dell’evasione fiscale.
Ma ancora una volta tutto questo putiferio ha preso avvio da una serie di dati reddituali “viziati” in quanto risultato di una media generale che si presenta effettivamente troppo bassa perché pesantemente condizionata da tanti casi di attività artigiane che, per la loro tipologia, provocano una bassa redditività.
Dati “viziati”, e quindi poco attendibili, perché si può dire che ci sono almeno “sette vizi”, non…capitali ma di forma, che falsano quelle medie.
1) Le nuove imprese artigiane nei primi 3 anni di attività lavorano generalmente in pareggio o in perdita (non a caso il 50% delle nuove aziende non supera i 3 anni di vita)
2) Il 65% degli imprenditori artigiani non si avvale di alcun dipendente. E’ quindi plausibile che guadagni come o poco più di un operaio.
3) Gli artigiani ormai alla fine dell’attività (che non sono pochi, considerando la mancanza di ricambio generazionale….) guadagnano assolutamente cifre sotto la media in quanto lavorano molto meno ore.
4) Le medie nazionali non tengono conto del fatto che i redditi di artigiani del sud del Paese sono sensibilmente differenti.
5) La perdurante crisi di molti settori (ad esempio tessile e metalmeccanico) incide sui redditi artigiani, soprattutto su quelli delle imprese dell’indotto.
6) Esiste ragionevolmente un’alternanza di annate “buone” e “cattive”, tipica del lavoro autonomo e quindi artigiano, che non può avvalersi dello stipendio assicurato del lavoratore dipendente. Del resto non dimentichiamo che il 50% delle società di capitali chiude i bilanci in pareggio o in perdita.
7) Non poche attività, soprattutto nel settore femminile, sono svolte in “part-time”, cioè da imprenditrici che dedicano parte del tempo agli impegni familiari. Evidente che i loro introiti siano sensibilmente più bassi.
Ci sembrano considerazioni oggettive e concrete che smontano significativamente il “tormentone” che vorrebbe bollare il lavoro autonomo come unico vero protagonista dell’evasione fiscale in Italia. C’è da chiedersi come mai si continua a considerare come “parassiti” le imprese dell’artigianato che di fatto producono oltre il 17% del PIL e danno lavoro a più di 3 milioni e 500 mila addetti. E neppure si comprende come mai, quando si parla di dichiarazioni dei redditi, si dimentica in qualche angolino del giornale la notizia che oltre il 90% delle aziende artigiane è ritenuta “congrua” agli studi di settore, cioè ha denunciato redditi in linea con i parametri stabiliti dall’autorità fiscale dello Stato e che tengono conto del settore produttivo, del tipo e delle condizioni di attività. Non sarebbe ora di uscire da questi stereotipi che, peraltro, finiscono per nascondere una seria analisi delle potenzialità fiscali del Paese che magari tenga anche conto di tutto il comparto produttivo, a partire dalla grande industria?