di ALESSANDRO LIMATOLA
E’ tempo di bilanci in ordine alle politiche locali per l’internazionalizzazione delle imprese.
Al riguardo, sarebbe ingeneroso affermare che le risorse utilizzate nei vari programmi realizzati siano andate disperse ma appare certamente evidente che il rapporto costi/benefici sia stato e sia assolutamente insoddisfacente.
I risultati positivi finora ottenuti si concentrano nella grande impresa (che da sola riuscirebbe ugualmente a raggiungere tutti i mercati che ritiene strategici) ed in talune (fortunate o brave) piccole e medie imprese che hanno avviato contatti (per lo più di mera compravendita spot) con singoli o gruppi di imprenditori.
Il motivo dell’insuccesso è a nostro avviso legato al fatto che sono mancate (non le risorse) ma idee nuove e soprattutto piani di azione tarati partendo dalla struttura, dall’organizzazione e dalle capacità produttive delle imprese del Sud.
Da qui l’idea (errata) di realizzare interventi di promozione difficili da far metabolizzare agli imprenditori o non strategici per le loro imprese.
Con la conseguenza che, da un lato, i più attenti non vi hanno preso parte e, dall’altro, chi vi ha partecipato comunque è rimasto deluso o non pienamente soddisfatto.
Due sono le principali cause di ciò.
In primo luogo, v’è il fatto che si è preteso di far conformare le imprese ad i progetti che sono stati realizzati e non viceversa.
In secondo luogo v’è da dire che, negli ultimi 15 anni, non vi sono state innovazioni significative negli strumenti e nei programmi strategici pubblici di sviluppo e/o di internazionalizzazione.
Da anni, infatti, si assiste, da un lato, al pullulare di manifestazioni fieristiche – che per la natura e nella migliore delle ipotesi generano attività essenzialmente attività spot – e dall’altro, alla creazione di sportelli in singole realtà economiche, che, per la limitatezza delle risorse e della sfera d’azione, non hanno sostanzialmente risposto ai bisogni delle imprese.
Preferiamo in questa sede non affrontare il tema delle duplicazioni di attività occasionali e/o spot all’Estero da parte degli Enti Locali, consequenziali al fatto che in Italia non v’è coordinamento, salvo rare ed importanti eccezioni, nelle politiche di internazionalizzazione ed esportazione delle nostre imprese.
Le importanti eccezioni sono, a nostro giudizio, le istituzioni per il commercio estero nazionali (SIMEST, SACE ed ICE).
Si tratta di strutture che hanno finora dimostrato di svolgere bene il loro compito impiegando le risorse loro assegnate in maniera coerente e puntuale.
E’ nel fare sistema con tali entità – le quali dispongono peraltro un patrimonio di esperienza pluridecennale – che dovrebbe puntare la politica locale (essenzialmente regionale) d’internazionalizzazione delle imprese essenzialmente minori.
Come si può pensare che partecipando ad uno o più eventi fieristici un’impresa può internazionalizzarsi?
Esportare (poco o molto) non significa internazionalizzarsi.
Occorre, dunque, ampliare la base delle imprese che possono accedere agli strumenti già disponibili; strumenti che accompagnano l’impresa verso la crescita e l’internazionalizzazione delle proprie attività (individuazione delle opportunità d’investimento; realizzazione di studi di fattibilità economico/finanziaria dei progetti tarati sulle singole imprese e settori produttivi; accompagnamento nella penetrazione commerciale extra UE, sviluppo di società estere ed assunzione di capitale di rischio).
Concludendo: in assenza (ed in attesa) di idee innovative in tema d’internazionalizzazione, appare opportuno concentrare le risorse disponibili residue non su progetti scollegati dalla realtà ma in sinergia con gli strumenti già disponibili e collaudati.





