di ALESSANDRO LIMATOLA
Gli ultimi dati pubblicati confermano il trend negativo dell’occupazione nelle grandi imprese.
I dati pubblicati dall’Istat, ci dicono che, su base annua, la riduzione del numero di occupati sull’intero territorio nazionale, si è attestata al 2% mentre, nel solo mese di agosto 2005, i posti di lavoro persi nella grande industria sono oltre 10.000.
In controtendenza è il risultato dei servizi e del terziario che fa registrare un, non trascurabile, tasso di crescita sia dell’occupazione che della produttività in generale.
L’apparente contraddittorietà dei risultati economici qui sintetizzati, ci induce ad una riflessione sull’individuazione delle strade che ci devono portare verso la crescita.
Le condizioni attuali dell’economia e delle imprese rendono piana, senza preconcetti né tatticismi corporativi qualsiasi discussione in ordine ai possibili rimedi da adottare. Ciò in quanto il fondo è stato davvero toccato ed è sempre più palpabile la voglia di rinascere delle imprese e degli operatori di tornare a competere sui mercati internazionali. Il tempo della “depressione” sembra oramai non più attuale mentre sembra estendersi la voglia di reagire, crescere e di affrontare con positività il futuro.
Tale sentimento appare, peraltro, confermato dagli ultimi dati, ancorché congiunturali, sulla crescita economica del Paese ed in particolare del Sud.
Gli interventi del Presidente Ciampi – non casuali né isolati – sulla necessità di far ripartire la fiducia e di proteggere la proprietà intellettuale (in primis i marchi) degli italiani costituiscono la prova evidente che è venuto il tempo di reagire e di uscire dalle logiche “difensive” che hanno rappresentato il filo rosso che senza distinzioni, dimensionali o geografiche, ha unito la quasi totalità delle imprese del Paese.
Per fare ciò è, però, necessario che la P.A., centrale e periferica, crei le pre – condizioni per competere e favorisca sia i comparti economici a maggior valore aggiunto che quelli con i più significativi margini di crescita.
Non per banalizzare, ma il fattore sicurezza rimane il primo obiettivo sia per attrarre investimenti che per spingere i nostri operatori ad attingere le risorse parcheggiate in attività finanziarie sostanzialmente improduttive e, comunque, inidonee a compensare lo stesso tasso reale d’inflazione.
Analogo discorso va fatto per il sommerso che produce, tra l’altro, evasione fiscale sul piano degli interessi generali e concorrenza sleale per quelli particolari e di comparto.
Per fare ciò occorrono sì risorse, ma soprattutto una nuova sensibilità verso i problemi finora irrisolti. Problemi che, in ultima analisi, condannano, prima di tutto, coloro che vi operano facendo concorrenza sleale agli altri operatori.
Difficilmente, infatti, il mercato di riferimento e l’organizzazione aziendale costruita da chi si trova al di sotto dei livelli minimi di legalità consente agli operatori di uscire allo scoperto mettendosi in regola.
Lo sforzo che va fatto a questo proposito è quello di far comprendere a chi sceglie (o è costretto a scegliere) il sommerso che è una strada di non ritorno.
Occorrono, inoltre, riforme strutturali in grado di far agganciare al sud ed all’Italia il locomotore dello sviluppo che, a livello globale, cresce del 3-4% all’anno rispetto a percentuali da prefisso telefonico messe a segno dal nostro Paese negli ultimi dieci/quindici anni.
Se l’economia globale gira ad una velocità superiore di tre – quattro volte rispetto alla nostra significa che il motore è logoro e va revisionato.
Che fare?
Partire innanzitutto dalle infrastrutture e dall’innovazione e, quindi, dal finanziamento degli investimenti, molto modesto nel nostro Paese ove si è preferito piuttosto sostenere i consumi.
Il sistema di incentivazione degli investimenti, sia pure con alcuni make up, è ancora figlio delle politiche di sviluppo degli anni ‘70 ed ’80.
Negli ultimi decenni si è voluto sostenere la grande industria manifatturiera, dissanguando le casse dello Stato, con risultati fallimentari; tutto ciò ha, però, un’aggravante perché le risorse utilizzate per finanziare i ccdd. comparti “maturi” non solo sono state sottratte ad impieghi diversi ma ne hanno ritardato la riconversione che va, comunque, realizzata.
I medesimi cambiamenti verificatisi in altre realtà hanno portato a puntare su prodotti e servizi ad alto valore aggiunto e con un tasso tecnologico molto alto.
Basti pensare che dalla metà degli anni settanta ad oggi, negli Stati Uniti, gli occupati nell’industria pesante si sono ridotti del 60% a vantaggio di nuovi prodotti, nuovi servizi e soprattutto delle nuove tecnologie. In Inghilterra questo fenomeno è stato ancora più evidente avendo l’industria pesante ceduto l’80% dei propri occupati ad altri comparti aventi significative prospettive di crescita.
Paradossalmente, nel breve e medio termine, questa lungimiranza ha consentito di sfruttare (e non di subire, come avvenuto per noi) le opportunità provenienti dalle economie in via di sviluppo ove il costo del lavoro e, quindi, delle produzioni è molto basso. Così facendo sono stati, in ultima analisi, massimizzati i profitti.
In secondo luogo, appare indispensabile migliorare sensibilmente la produttività del lavoro giunta, in Italia ed al Sud, ad un livello modestissimo.
Studi internazionali confermano che – per ogni ora – il dipendente italiano, fino al ’95, era più produttivo della media dei suoi colleghi europei. Dopo tale anno il trend di crescita della produttività si è rallentato progressivamente fino ad arrivare ad un + 0.8% rispetto al + 1,8% della media europea; ciò senza voler minimamente affrontare il tema del confronto con la produttività dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo (Cina ed India in testa)