La tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani fa ancora parlare di sé.
Il mondo delle imprese (artigiane ed industriali) in rari casi, e comunque in minima parte, producono rifiuti solidi urbani. Eppure sono annualmente costrette a fare i conti con il pagamento della Tarsu in favore dei Comuni di competenza ed in ragione della superficie occupata.
A norma delle disposizioni contenute nel decreto legislativo 507/93, le imprese sono tenute al pagamento della Tarsu e, correlativamente, i Comuni sono tenuti a richiederne il pagamento soltanto in relazione a quella parte di superficie occupata dall’azienda dove non si svolge l’attività di impresa (artigiana o industriale).
Stando al tenore della norma, le superfici tassabili da parte dei Comuni sono solo quelle adibite ad uffici, servizi, depositi. Non sono invece tassabili, per espresso dettato legislativo, quelle superfici che risultino funzionalmente destinate all’esercizio dell’attività. È bene precisare che non si tratta della solita deroga né tantomeno di uno sconto.
La ragione è ben conosciuta dagli operatori del settore e risiede nel fatto che su quelle superfici (per intenderci quelle dove si svolge l’attività di impresa) non si producono rifiuti solidi urbani ma si producono – per definizione – esclusivamente rifiuti speciali, ovvero rifiuti tossico nocivi.
È ovvio che i Comuni, non essendo abilitati, e conseguentemente non effettuando lo smaltimento di tali rifiuti di diversa natura rispetto a quelli urbani, non possono pretendere il pagamento della Tarsu.
Anche perché le imprese, sempre per imposizione legislativa, sono tenute, con onere proprio, ad appaltare ai privati (legalmente riconosciuti) lo smaltimento dei rifiuti speciali, tossici e nocivi. È evidente che non si può tassare una stessa superficie (quella in parola dove si svolge l’attività) una volta con il pagamento dello smaltimento ai privati ed una seconda volta al Comune.
Il fatto contrasterebbe anche con il principio del divieto della doppia imposizione stabilito dall’articolo 53 della Carta costituzionale. Non sembra che tutti i Comuni si siano uniformati alle disposizioni di cui al richiamato decreto legislativo.
Il Comune di Napoli, ad esempio, ad applicare quanto stabilito dalla predetta legge non ci pensa proprio.
Risulta infatti che l’amministrazione, subito dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo, abbia adottato un regolamento secondo il quale ha stabilito di tassare anche le superfici che la legge dichiara non tassabili, seppure in una percentuale minore. Eppure esistono zone d’Italia dove è consentito non corrispondere al Comune di competenza la Tarsu, addirittura, quando il contribuente non è messo in condizione di usufruire concretamente del servizio di smaltimento. È il caso del Veneto, dove la Commissione Tributaria regionale ha stabilito che “non deve esserci il pagamento se il servizio di raccolta e smaltimento è stato solo istruito sulla carta senza che vi sia per l’impresa neppure una potenziale possibilità di diventare un utente effettivo”.
Non è neppure il caso di fare della facile ironia sul fatto che, se si volesse applicare un simile principio anche sul nostro territorio, probabilmente la Tarsu non andrebbe pagata neppure da parte di molte famiglie e non soltanto delle imprese, che già non ne sarebbero tenute.
Ad ogni buon fine, senza neppure voler giungere a simili risultati, sarebbe il caso che, prima di pagare la prossima cartella esattoriale contenente il corrispettivo della tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani, le imprese artigiane ed industriali prendano maggiore coscienza sul problema e maggiore conoscenza delle norme, contestando il tributo laddove vi è da contestare.
Egidio Paolucci
responsabile ufficio legale Claai
dal Notiziario CLAAI – Dicembre 2001