L’Articolo 18 nelle piccole imprese non risolve i problemi del mercato del lavoro
di ALESSANDRO LIMATOLA
Superato il clamore della guerra in Iraq e ridottasi l’emergenza Sars, è tornato prepotentemente di attualità il tema dell’introduzione dell’articolo 18 nelle imprese con meno di 16 dipendenti.
Le prime occasioni, per i fautori dei “SI”, sono state le manifestazioni organizzate per ricordare il 25 aprile.
Ciò dimostra quanto sia ideologica e demagogica la battaglia portata avanti da chi si è pervicacemente opposto alla progressiva eliminazione dell’articolo 18 anche nelle imprese aventi più di quindici dipendenti.
Ulteriore conferma di quanto innanzi non può non essere individuata nell’incivile e preconcetta contestazione da parte di militanti politici dell’estrema sinistra nel corso della manifestazione svoltasi a Milano proprio il 25 aprile.
A nostro avviso, del tutto inutile prima che dannosa e contraddittoria appare la proposta di modifica (che nonostante tutti i dubbi di costituzionalità ha passato anche il vaglio della Consulta) formulata, giova ricordarlo, per “ripicca” rispetto all’eguale e contraria riforma proposta per le imprese di maggiori dimensioni.
Inutile e dannosa innanzitutto perché – quand’anche venisse approvata – non risolverebbe affatto i problemi del mercato del lavoro che, in Italia, è sempre più ingessato. In secondo luogo perché la reintegrazione nella piccola impresa mal si concilia con il carattere personalistico e fiduciario del rapporto di lavoro nella piccola impresa.
Contraddittoria perché si troverebbe ad essere introdotta, a metà del guado, e cioè in prossimità del varo dei decreti attuativi della “legge Biagi” .
In altre parole, ci si troverebbe di fronte ad un capovolgimento del vecchio equilibrio che vedrebbe fortemente penalizzate le imprese minori le quali – com’è noto – rappresentano il 90 per cento di tutte le imprese operanti in Italia e producono il 60 per cento del Prodotto Interno Lordo.
Penalizzazione che andrebbe in controtendenza rispetto ai programmi di tutti i partiti politici ed alle recenti intenzioni del Legislatore.
Tutto ciò le piccole imprese non lo meritano e non intendono assolutamente accettarlo specie ove – come nel caso di specie – ci si trovi di fronte ad una proposta di modifica figlia di una “vendetta trasversale”.
Ciò senza contare sul piano più generale che, nella denegata ipotesi in cui passasse il “Si” al referendum, si assisterebbe ad un’impennata del “lavoro nero” e del “sommerso” all’interno dei quali il precariato, la “flessibilità” e l’assenza di garanzie per i lavoratori sono totali.
Bisogna scongiurare – con ogni mezzo lecito – una simile sventura che, se realizzata, penalizzerebbe fortemente il processo di crescita e di sviluppo del nostro Paese all’interno del quale le piccole imprese giocano un ruolo indiscutibilmente di primaria importanza.
Per questi motivi riteniamo che non debba essere perseguita la strada, anzi la scorciatoia del silenzio, sperando nel mancato raggiungimento del quorum.
Occorre, invece, far comprendere ai cittadini i reali obiettivi dei promotori ed i rischi cui si andrebbe incontro in caso di approvazione, al fine di ottenere un inequivoco e significativo “No” alla scellerata proposta formulata.
In questo caso, si scongiurerebbe, inoltre, il rischio che un conflitto per lo più politico – o forse è meglio dire partitico – si possa trasformare in un ben più pericoloso conflitto sociale.
Dal Notiziario CLAAI -Maggio 2003